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IL PUNTO
Il post Berlusconismo
di Giulio Angeli
Le schiaccianti vittorie delle coalizioni di centro sinistra alle elezioni amministrative del 29 e del 30 maggio us , assieme a quella recentissima conseguita con i referendum aprono una fase politica nuova, e lanciano un indiscutibile messaggio di rinnovamento.
Ma il dato politico veramente importante che queste consultazioni hanno espresso è costituito dalla progressiva disgregazione dello schieramento sociale rappresentato dal berlusconismo e dall'ascesa di quello emergente, premessa della svolta antimoderata dell’elettorato.
Proprio per queste considerazioni, ci sentiamo di moderare gli entusiasmi rispetto a una vittoria che, nel contesto della crisi capitalistica internazionale e dello scontro tra potenze, apre a scenari comunque inquietanti.
Quella che segue non è un'analisi del fenomeno “Berlusconi”, ma una schematizzazione di alcune sue caratteristiche fondanti e, insieme, un'indicazione di indagine al fine di svolgere successivi approfondimenti senza lasciarsi deviare da fenomeni transitori e da facili entusiasmi circa “la fine” del berlusconismo e “l’ascesa del popolo sovrano”, peraltro sponsorizzati da una identificabilissima borghesia che si esprime attraverso il quotidiano “la Repubblica”.
Il blocco sociale berlusconiano
L’aggregazione del blocco sociale che ha prodotto il berlusconismo è stato un processo lento, rilevante e contraddittorio, che si è replicato e logorato nel tempo. Le sue premesse sono antiche e risalgono alla particolarità italiana che rimanda ai suoi storici squilibri economici e sociali, alla debolezza del capitalismo italiano e, in esso, al ruolo del capitalismo di stato e alle diffuse sopravvivenze, anche istituzionali, del fenomeno fascista.
Ma è in un ampio insieme costituito dalla corruzione diffusa in parte emersa con il ciclone di “tangentopoli” e con l'esplosione del sistema italiano dei partiti politici parlamentari, nella cornice della grande crisi internazionale che aveva visto modificare gli assetti imperialistici con il crollo dell'URSS, che bisogna individuare gli elementi acceleratori che dettero vita, a partire dal 1994, a una compagine variopinta e greve, ma comunque vincente, espressione di un articolata alleanza di classe nata sulle ceneri della “prima repubblica”.
Detta alleanza si costituì attorno a interi settori del piccolo capitale, delle professioni, della piccola e media imprenditoria e anche, va detto, a interi settori del lavoro legati all'aristocrazia operaia e all'imprenditoria familiare diffusa sul territorio, assieme a settori del lavoro pubblico e del mondo giovanile abbagliato dai miti della competizione e del successo. Un'aggregazione sociale eterogenea ma vitale, caratterizzata da ampi strati piccolo borghesi frustati dal ruolo opprimente svolto dai grandi partiti di massa ormai esplosi, e che avevano liberato personale politico in cerca di nuove sponsorizzazioni. Un insieme dinamico, individualista e ostile ai monopoli, naturalmente a quelli altrui e, soprattutto, alle regole dell’ordine borghese là dove le istituzioni sono chiamate a svolgere il ruolo di garanti degli interessi unitari della borghesia, talvolta anche contro quelli particolari del singolo soggetto capitalistico.
Un insieme naturalmente incline alla spettacolarizzazione e alla mitizzazione, le cui caratteristiche, anche culturali, furono efficacemente espresse dalla definizione de “la Milano da bere” di craxiana memoria che costituisce, a ragione, il laboratorio e la premessa culturale del berlusconismo. Un insieme naturalmente qualunquistico e aggressivo, incline all’incultura dei miti e delle mode e capace anche, per le sue medesime origini e caratteristiche, di coagulare allarmanti elementi di intolleranza sociale, di razzismo e di fascismo.
A questo punto non crediamo sia pedante ricordare la seguente e attualissima citazione:
“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante”.
(Karl Marx “L'ideologia tedesca” 1845 -1846).
Nulla di strano quindi se le idee dominanti e i lauti profitti di questa nuova aggregazione di classe sarebbero stati espressi e incrementati dalla televisione commerciale di pessima qualità, dai suoi innumerevoli messaggi, simboli e miti.
Ma una simile brigata di classe si sarebbe trascinata dietro importanti e onnivore compagini capitalistiche, finanziarie e industriali quando, orfane della protezione dei vecchi partiti parlamentari, erano rimaste alla finestra a fiutare il vento e si sarebbero dimostrate entusiasticamente pronte a “correre in soccorso al vincitore”, al fine di riscuotere laute prebende sotto forma di aiuti o di grandi commesse di stato drenanti la fiscalità generale, privatizzazioni di servizi pubblici essenziali già poste in essere dai precedenti governi di centrosinistra e, comunque, da portare a compimento secondo regole nuove.
Questo blocco sociale mai coeso ma pur sempre vitale, che si è replicato per quasi venti anni e fino a ieri con l'avvallo diretto di settori trainanti di confindustria, è ormai giunto al capolinea, minato dalle sue stesse contraddizioni e da una crisi internazionale che non lascia spazio alle semplificazioni localistiche dell'interesse particolare tutto proiettato all’interno del paese il cui sistema produttivo si è trovato esposto, salvo pochissime eccezioni territorialmente circoscritte (nord est), alle manovre di acquisizione da parte dei grandi monopoli internazionali.
Un altro tratto degno di nota è stato il totale disinteresse a svolgere quella funzione regolatrice degli interessi unitari della borghesia che l’attuale governo ha consumato nell’intera vicenda FIAT. Questa latitanza governativa, addirittura rivendicata, ha impedito ogni mediazione ponendo in serissima difficoltà la confindustria, là dove si sono paventati rischi di scissione, poi parzialmente rientrati ,con il recente riallineamento sulle posizioni della dirigenza FIAT circa la demolizione della valenza nazionale del contratto di lavoro. In generale è venuta meno l’azione moderatrice del governo, così come è invece avvenuto, per esempio, negli Stati Uniti e in particolare in Germania, là dove il governo si è attivamente impegnato a sostegno degli interessi unitari del capitalismo tedesco.
In un simile contesto il governo Berlusconi si è limitato a sfruttare “pro domo sua” le proiezioni nazionali delle manovre dei settori più aggressivi del capitalismo italiano, espressi in questa fase, dal gruppo dirigente FIAT, per aggredire il modello contrattuale nazionale e per frantumare l’unità sindacale.
Ma con la crisi che ha cominciato a mordere, sono arrivati i primi sintomi di contrazione del mercato interno, di sfaldamento e di perdita di credibilità, e con essi interi settori del capitale, quelli maggiormente legati a strategie di investimento sui mercati internazionali e che per questo necessitano di uno stato regolatore capace di concedere sostegno alle imprese, di una efficace politica estera ma anche capace di moderare i conflitti, hanno iniziato a guardare al berlusconismo con crescente diffidenza, se non con ostilità.
Il blocco sociale berlusconiano ha tuttavia conseguito importanti risultati sul piano interno di classe: ha ottenuto la diminuzione del salario reale dei lavoratori, ha posto le premesse per la demolizione dei contratti nazionali, ha replicato un regime fiscale e tariffario iniquo e posto a protezione dei redditi più elevati e dell’evasione fiscale, ha agitato lo spettro dell’immigrazione soffiando sul fuoco dell’intolleranza, ha posto in essere privatizzazioni selvagge dei pubblici servizi che hanno scaricato i costi di gestioni fallimentari sulle bollette e cioè sull'utenza, ha accelerato i processi di smantellamento dello stato sociale, dell’assistenza e della previdenza, della pubblica amministrazione e, in particolare, del sistema costituito dalla scuola, dall’università e dalla ricerca pubbliche, là dove sono stati realizzati i maggiori tagli perché ritenuto settore non strategico.
Da questo punto di vista l’operato dei governi di centro destra ha solo deformato, peggiorandole, le varie manovre già intraprese dai precedenti governi di centro sinistra con l’avvallo del sindacalismo confederale e, a tratti, anche della CGIL, come dire semplificando: la destra ha concluso a suo modo il percorso concertativo e subalterno al capitale iniziato dal riformismo.
E’ indubbio che la volontà di scaricare i costi della crisi sui lavoratori nell’intento di rilanciare la competitività delle merci italiane sui mercati internazionali, rivelatasi nel complesso effimera e illusoria, abbia conseguito consistenti risultati riuscendo a scaricare sui lavoratori i costi della crisi. Il lavoro è stato flessibilizzato a partire dal “pacchetto Treu” e dalla conseguente legge n. 196/97 che ha obiettivamente aperto la strada al precariato, e le varie “politiche dei redditi” hanno finito per realizzare una distribuzione della ricchezza per il 60% ai profitti e alle rendite e per il 40% ai salari.
Come già abbiamo affermato in innumerevoli circostanze, quest’opera di risanamento ai danni del lavoro e degli strati sociali più deboli della società, perseguita dai vari governi di centro sinistra fin qua succedutisi e avallata dal sindacalismo confederale in base all'illusoria declinazione “risanamento prima, riforme dopo” (svolta dell’EUR – gennaio 1978), non ha ostacolato le tendenze più aggressive della ristrutturazione capitalistica realizzatesi ai danni del lavoro, contribuendo a creare un sistema sociale iniquo e diseguale, là dove il 10% delle famiglie detiene il 45% della ricchezza sociale prodotta.
In un simile contesto, se la CGIL ha poi posto in essere una tenace ed efficace opposizione a questo modello classita di uscita dalla crisi ebbene, questa salutare discontinuità non può che suonare come una secca smentita delle sue precedenti politiche moderate e subalterne che, nei fatti, hanno agevolato l'offensiva del capitale anziché contrastarla efficacemente. Il sindacato stesso, infatti, ne è risultato indebolito e la svolta neocorporativa di CISL e UIL non rappresenta solo la deriva definitiva di gruppi dirigenti sindacali che si schierano apertamente per la collaborazione di classe ma, specialmente nel caso della CISL, essa trascina con se importanti settori del mondo del lavoro agevolandone la frattura che la sola opposizione della CGIL non riesce ad arginare efficacemente, non ostante le tenaci lotte della FIOM e gli indubbi sforzi, anche recenti, quali lo sciopero generale del 6 maggio us.
La CGIL però non è piegata: essa ha continuato a far da argine, sia pure tra innumerevoli contraddizioni, con le lotte di alcune sue categorie unitamente alla ripresa del protagonismo femminile e del precariato, che ha dato prova di protagonismo e di capacità organizzative talvolta autonome e che si sono fuse con le rivendicazioni del movimento degli studenti nell’opposizione alla riforma Gelmini. D'altronde, la riuscita dello sciopero generale del 6 maggio scorso, indetto dalla sola CGIL, dimostra la complessità dello scenario: la forza della CGIL, che rimane intatta, consente di resistere a uno degli attacchi capitalistici più duri di questi ultimi decenni e questo è già un risultato importantissimo, ma non è tale da consentire a breve, l'ottenimento di fondamentali obiettivi quali, salario, lotta al precariato, difesa del contratto collettivo nazionale e dei servizi sociali pubblici, per una migliore qualità della vita, per la difesa, la generalizzazione e l’ampliamento dei diritti conquistati. D’altronde, i risultati elettorali e referendari, hanno recepito il clima di opposizione maturato con le sopradette mobilitazioni evidenziando il limite costituito dal fatto che nel paese c’è oggi più volontà di lotta che capacità di recepire e rappresentare questa volontà.
Un nuovo blocco sociale emergente?
Siamo in presenza di una scomposizione e ricomposizione di classe secondo le leggi dello sviluppo capitalistico, da cui può sorgere un nuovo assetto politico che, inevitabilmente basantesi sul precedente potrebbe anche rappresentarne un perfezionamento.
Un'alleanza o una formazione politica pesano per ciò che rappresentano socialmente, non tanto per i programmi elettorali espressi, per le migliori intenzioni o per l'efficacia dei mezzi di comunicazioni scelti. Questi ultimi hanno il loro ruolo indubbio che è, talvolta, determinante: ma senza una salda base sociale si riducono al ruolo di espedienti, così come il declino berlusconiano dimostra. Tuttavia è possibile ipotizzare lo sviluppo di una nuova compagine sociale costituita da schieramenti diversi e divergenti per precisi interessi di classe, che si vanno integrando e scomponendo in equilibri in parte intercettati dalla svolta antimoderata e di sinistra dell’elettorato intercettata dalle formazioni politiche di centro sinistra.
Appare in tutta evidenza come, oltre all'indiscutibile, genuino e non trascurabile afflato antiberlusconiano, ampi settori della borghesia finanziaria e industriale, dell'editoria, dell'imprenditoria diffusa e alcuni settori della chiesa cattolica abbiano appoggiato le formazioni di centrosinistra nel tentativo di essere presenti fin dall'inizio dell'avventura per condizionarne le sorti.
Anche la confindustria ha tardivamente e definitivamente preso le distanze dal berlusconismo dopo averlo efficacemente sostenuto per anni, ma si è schierata con le ali più intransigenti del capitale che mirano a demolire il contratto nazionale e a isolare l'opposizione sindacale. Così come appare altrettanto evidente che ampi settori del mondo del lavoro, del movimento sindacale nella sua accezione più ampia, delle donne, del cattolicesimo di base, del precariato diffuso e degli studenti, dei movimenti per la pace e dell'ambientalismo, unitamente a ampi settori popolari disgregati nei quartieri e nei territori abbiano sostenuto e salutato con entusiasmo la vittoria del centrosinistra, e che da questa vittoria si aspettano una rottura con il moderatismo.
Identificare le tendenze interclassiste di un nuovo schieramento sociale non significa assumere verso di esso un elitario atteggiamento di rifiuto: significa individuare, senza illusioni, la base su cui sorgeranno nuovi equilibri sociali che contraddiranno, inevitabilmente, le promesse elettorali appena esse faranno i conti con i concreti rapporti di forza interni, secondo le inevitabili leggi del profitto e del conflitto tra capitale e lavoro. Sono proprio gli equilibri di questo nuovo schieramento sociale, le sue identità e le sue innumerevoli contraddizioni che dovranno essere decifrate, al fine di individuarne le tendenze egemoni e da quale parte tireranno.
Concludendo questa nostra breve ricognizione
Per ultimo la guerra in Libia, a sostegno della quale si sono levati i settori maggioritari del centro sinistra. Non dobbiamo stancarci di affermare in ogni circostanza che questa guerra è una guerra imperialistica, combattuta per affermare la presenza delle potenze europee e bilanciare la penetrazione cinese in Africa. In gioco c’è la gestione del le fonti di energia del petrolio e del gas, la pace, la democrazia e il rispetto dei diritti umani sono solo il cinico pretesto per mascherare una nuova aggressione imperialista.
Gli scenari di guerra e di morte, in cui intere popolazioni dei paesi in via di sviluppo sono ricacciate proprio quando sono alla ricerca di migliori condizioni di vita, l’aggressione dei processi di ristrutturazione alle conquiste del lavoro e ai settori più deboli della società nel tentativo di scaricare sopra di essi i costi della crisi, i continui richiami al senso di responsabilità delle forze riformiste per un rilancio imperialistico sui mercati internazionali per ridare slancio all'economia, il replicarsi di un governo privo di consenso e con una precaria maggioranza parlamentare, la disoccupazione e il precariato dilaganti, la demolizione e la privatizzazione dei servizi pubblici, la rabbia del ceto medio morso dalla crisi e lo scadimento delle condizioni di vita di intere popolazioni, l'assenza di ogni credibile prospettiva internazionalista unitamente alla debolezza del movimento sindacale che non riesce a rappresentare le realtà emergenti del lavoro e della scomposizione sociale intercettandone e canalizzandone il malcontento in un progetto di unità di classe, compongono un quadro certamente ricco di contraddizioni e di allarmanti “déjà vu” che non deve essere sottovalutato: ma esso è anche un quadro dinamico, la cui dettagliata e obiettiva identificazione costituisce il primo passo pratico per la definizione di un intervento rivoluzionario nella realtà.
giugno 2011 |